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Solo per amore : Caregiving: un dono d’amore che dura molti anni
02 Nov

Solo per amore : Caregiving: un dono d’amore che dura molti anni, forse tutta la vita ed alle volte anche oltre

Caregiver (o carer in Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna), letteralmente ‘’colui che si prende cura”, è il termine con il quale si definisce quel familiare che a titolo gratuito, e si può aggiungere, a tempo pieno, assiste un proprio congiunto non autosufficiente in ogni aspetto della vita quotidiana, per motivi di salute, per disabilità o per l’età avanzata.

Un termine, solo un termine, che però racchiude in sé un intero mondo, anzi un universo, di emozioni, di sensazioni, ma soprattutto di ansia , dolore e paura. Perché è questo che affligge chi così elegantemente viene chiamato. Erroneamente equiparato alla figura della badante, il caregiver, in realtà occupa una posizione assolutamente inferiore. La prima infatti, pur non avendo una formazione specifica, poiché non sempre si tratta di infermiere diplomate, tuttavia spesso in possesso dell’attestato di un corso di formazione, si prende cura di una persona non autosufficiente, dietro compenso, trovandosi così a ricoprire ormai un ruolo attivo e concreto nella vita delle nostre comunità, attraverso una professione, riconosciuta e tutelata. Cosa che purtroppo non accade con i caregivers. Occuparsi a tempo pieno di un congiunto affetto da disabilità, da demenza senile o da una malattia grave, non gode dello stesso rispetto e della stessa attenzione della quale gode la precedente figura. Spesso addirittura, il familiare assistente, deve tenere il fatto per sé, quasi ‘’vergognandosi’’, della vita che deve donare perché qualcun altro possa continuare, non a vivere ma a sopravvivere. L’amore e l’assistenza continua e costante divengono così fonte di dolore e di disperazione, spesso accompagnati dalla solitudine quale unica compagnia. Se già le famiglie in cui è presente un disabile o un malato grave vengono isolate, poiché la sofferenza, anche alla vista non è grata a nessuno, ed è spesso fonte di rischio, nonché di richieste d’aiuto al quale, diviene difficile sottrarsi, non per amicizia, ma per mero senso civico, il caregiver, viene a trovarsi doppiamente abbandonato ed isolato.

Un compito impegnativo, duro e faticoso, quello assunto dal familiare che volontariamente, o come accade, disgraziatamente in troppi casi, non per sua volontà, si incarica di offrire il suo aiuto ad un malato, spesso privo di qualsiasi possibilità di recupero fisico o di guarigione. Impegno, troppo frequentemente, quindi, non preso in seguito ad una decisione personale, ma a causa degli eventi e delle necessità del nucleo familiare di appartenenza. Assistere a tempo pieno, un paziente disabile o affetto da demenza, è un compito che nella maggioranza dei casi, nella nostra società ricade sulle donne, sono infatti il 74% dei caregiver, ed i dati riguardanti le fasce d’età sono oltremodo sintomatici. Sono il 31% le donne sotto i 45 anni che si dedicano a questo ‘’dono di sé per amore’’, il 38% quelle tra i 46 ed i 60, il 18 % tra i 61 e i 70 ed addirittura il 13% le donne che ancora ricoprono questo ruolo varcata la soglia dei 70 anni. Dati allarmanti, che indicano non uno ma ben due problemi di questo nostro momento storico : l’abbandono da parte della società delle persone affette da disabilità e da malattia grave e la cancellazione di una parte della popolazione femminile, ridotta all’emarginazione, all’isolamento prima ed all’esclusione sociale ed all’indigenza poi. Il non riconoscimento della figura del caregiver, abbinato al fatto che tale ruolo è prevalentemente ricoperto da persone di sesso femminile, espone queste ultime ad una serie di rischi molto alta, privandole non solo della possibilità di lavorare e di avere, una volta raggiunta l’età in cui si dovrebbe venire accuditi , una pensione sufficiente, ma di trovarsi addirittura prive di reddito, poiché spesso l’unica fonte di sostentamento per il caregiver è proprio costituita dal malato cui presta assistenza. Non uno, ma ben due gruppi di persone totalmente dimenticati , esclusi, perché alla vista, troppo difficile diviene da sopportare la malattia, la disabilità e gli effetti che questa provoca su chi per amore, devozione o per dovere deve viverne la mesta aura.

All’estero questa situazione è da molto superata, tale figura gode di riconoscimento, ricordando che il familiare assistente, resta pur sempre una persona, non un automa privo di anima e di volontà, ma
dotato di un’identità e di un destino proprio, svincolato, e non incatenato a quello del suo assistito, mentre l’aiuto non viene manifestato solo con buone parole o con frasi di circostanza, ma con ausili concreti, che alleggeriscono l’opera del familiare, a cui viene restituita la dignità di persona umana e la possibilità di sperare, per sé in un futuro, che non sia altrettanto nero quanto quello del suo sfortunato congiunto. Purtroppo, nel nostro paese, tanta fortuna risulta ancora lontana da concretizzarsi in realtà, in quanto è risaputo essere nostra cultura, considerare come prima e più completa fonte di welfare proprio la famiglia, su cui tutte le sofferenze, di qualunque genere tendono a ricadere, con conseguenze spesso, senza rimedio. Amore ed affetto risultano sovente non essere abbastanza, come anche la buona volontà può non essere sufficiente, tanto più che le forze umane non sono infinite, e tendono a scontrarsi, al contrario, con una persona bisognosa ogni secondo della sua esistenza di un quantitativo di quest’energia pressoché illimitato, oltre che di quell’amore che mai viene meno , fino a giungere, non poi così raramente, al terribile e tragico finale, che porta a qualche gesto estremo per il quale non ci potrà essere possibilità di ripensamento.

Il carico dell’assistenza, all’interno del nucleo familiare, abitualmente, se non sempre, diventa incarico di un’ unica persona, che si trova quotidianamente, a vivere il dolore, la malattia ed il dramma di una persona cara, che come una candela vede spegnersi poco a poco, sia nel corpo che nella mente, a causa di una patologia per cui nella stragrande maggioranza dei casi, non ci sono, non solo cure, ma neppure possibilità di miglioramento, solo l’abisso di una disperazione, accanto alla perdita in vita di una persona così cara al proprio cuore, da rendere talmente insopportabile tanto dolore, da giungere alla conclusione più scontata quanto atroce, che vede il caregiver, togliere dalla sofferenza il congiunto afflitto da tale nera infermità, per poi seguirlo oltre la soglia del non ritorno.

Una possibilità agghiacciante, ma non poi così remota, specie analizzando i dati più recenti, che ci mostrano un quadro dalle tinte tutt’altro che rosee, esposto in un numero sempre maggiore di occasioni, nella sezione cronaca nera. Storie che in ben più di un caso avevano come premesse circostanze di questo genere : una persona, disabile o gravemente malata ed un familiare assistente, bruciato nell’anima dalla disperazione per la sorte del congiunto, e logorato oltre misura nel fisico e nello spirito dalle condizioni di non vita cui il caregiver stesso per amore si assoggetta, l’apice di quella crisi sia psicologica che fisica, a causa dell’isolamento sociale ed emotivo a cui il familiare assistente si trova sottoposto. Non bisogna infatti trascurare anche il lato fisico della situazione. Per assistere un malato, specialmente se si tratta di un disabile non autosufficiente o affetto da deficit di tipo cognitivo, è richiesto uno sforzo ed un impegno costante sia nella cura, che nel mantenimento di un incessante stato di allarme di giorno, come di notte, senza praticamente un attimo di tregua, ostaggio perenne di ansia e paura. Ansia e paura. Sentimenti che non svaniscono mai, sempre che qualcuno non riesca a farli scomparire. Aiutare un familiare assistente, ovvero un ‘’caregiver’’, non vuol dire limitarsi al ‘’fatti coraggio’’ ‘’vedrai domani andrà meglio’’ o peggio ‘’restituisci ciò che ha fatto per te’’. L’amore è un dono non un obbligo o un sacrificio, anche il familiare ha diritto non solo di esistere come un ombra, stabile custode d’affetto e di cura, ma di vivere, tanto quanto il suo congiunto. L’aiuto deve essere concreto, mai fatto di parole banali, o di velate minacce sociali, quando ad esempio il parente da assistere è un anziano affetto da patologie degenerative senza possibilità di guarigione. Non è aiuto rinfacciare ad un figlio ciò che l’anziano genitore ha fatto per lui, l’amore non è un dovere sociale, né un vile mercanteggio, ma unicamente un dono spontaneo, e il supporto che si deve offrire a questa persona, perché possa continuare nella sua opera che è degna solo di merito ed onore, senza spegnersi come una candela prima del suo assistito, sia fisicamente che spiritualmente, è aiutarlo in maniera concreta. Non condannarlo se anche solo per un ora al giorno non mette la malattia del suo congiunto al centro della sua anima e dei suoi pensieri.

Mostrare stima, per il compito così importante a cui con impegno e devozione si dedica, ricordandogli sempre, che è comunque una persona e che ha diritto a dei momenti liberi. Non è mancanza di rispetto verso il parente malato, ma un modo di recuperare le energie ed affrontare la missione quotidiana con rinnovato vigore, ed un ottimo antidoto contro la comparsa dei sintomi della depressione, patologia cui i caregivers sono particolarmente esposti. Offrire il proprio aiuto concreto nello svolgere alcuni compiti cui normalmente si dedica il familiare assistente. Questo soprattutto è la cosa più importante, non buone parole, frasi scontate, oppure vuota indifferenza, ma una mano, un appoggio reale e concreto su cui contare, sempre, senza giudizi o secondi fini, solo, come fa un caregiver, solo per amore. Amore. La forza più grande che anima l’essere umano, che tutto può , che tutto vince. La più corretta definizione di questo sentimento, ma anche la più abusata nel nostro paese, soprattutto quando ‘’amore’’ viene utilizzato come sinonimo di ‘’welfare’’. La presa di coscienza, infatti, riguardo l’importanza del ruolo del familiare assistente, in Italia è in grande ritardo rispetto agli altri paesi. Una grande mancanza, poiché, scartando il lato umano della questione, che nel bilancio di uno stato, conta poco, rimane quello economico, che risulta essere incalcolabile, sostituendo perfettamente, e forse meglio, i servizi assistenziali, che il sistema sanitario nazionale, dovrebbe offrire a quei suoi cittadini, affetti da patologie gravi o disabilità, con un conseguente enorme risparmio e in un certo senso ritorno economico...almeno apparente. Perché se da un lato, l’assistenza di un familiare ad un disabile o ad un anziano non autosufficiente, consente allo stato un risparmio immediato, genera tuttavia, sulla lunga distanza una serie di problemi, dei quali purtroppo, sarà solo il futuro a mostrarci il suo tragico bilancio. Secondo ricerche statistiche, i caregivers, in Italia sono oltre 3 milioni e mezzo, almeno da stime ufficiali, ma si calcolano siano ovviamente molti di più, calcolando l’aumentare della popolazione anziana, spesso affetta da pluri -patologie, o dai disabili, che sono assistiti, per la maggioranza dei casi, tra le mura domestiche, dalla famiglia. La necessità di una legge che riconosca l’importanza di questa figura, diviene quindi fondamentale, ma accompagnata, anche, da qualcosa di ancora più importante, ovvero un cambio di mentalità. Da secoli esistono leggi che sanzionano il furto, ma non per questo i ladri, nei secoli si sono estinti, anzi tendono addirittura ad aumentare. L’esigenza di un riconoscimento deve quindi, necessariamente camminare accanto ad una società nuova, con un nuovo modo di vedere se stessa. A cominciare dalla considerazione di tale fondamentale ruolo, il cui carattere di genere, in Italia, è scolpito a caratteri cubitali, non solo per la carenza e la disorganizzazione dei servizi offerti dal sistema sanitario, ma anche, per la consuetudine, nella tradizione della nostra gente, che vede questo compito , ancora ai giorni nostri, delegato, quasi esclusivamente alle donne, ritenendolo un lavoro ‘’leggero’’, adatto alla ‘’sensibilità femminile’’, e legato al suo innato ‘’istinto materno’’, sottovalutando sia l’importanza della figura come della situazione.

La vita non è un sogno, anche se alle volte può essere ancor più splendida di una visione onirica, tuttavia, non è un buon motivo per svilire un impegno, che non ha affatto bisogno di essere sminuito. Accudire un familiare non autosufficiente, non è e non sarà mai un gioco, poiché, nonostante sia credenza comune, non c’è nulla di romantico nelle malattie, ed accanto ai sentimenti è bene sempre accostarci la ragione, perché un simile impegno, non si risolve in pochi giorni ma spesso in molti anni di cura e devozione, che alla fine, avranno reso più sopportabile la sofferenza del malato, ma cambiato per sempre la vita del suo congiunto, che alla fine si ritroverà comunque in un vicolo cieco, sia che abbia raggiunto un età avanzata, che non gli consentirà di rientrare nel mondo del lavoro o di accedere direttamente alla pensione, creando quindi una persona indigente e ancor più emarginata, o una persona ancor giovane per ricevere una qualche forma di sussidio, ma impossibilitata a trovare occupazione, per i troppi anni trascorsi in questo ‘’dono d’amore’’, la cui esperienza, e le competenze acquisite, perché in questo frangente se ne acquisiscono più che in un ospedale, non verranno valutate come positive, né tenute in considerazione alla presentazione di una eventuale candidatura, in quanto non ottenute in maniera ‘’convenzionale’’, con il risultato che le risposte ottenute saranno sempre ‘’si ma non sei un’infermiera’’ ‘’in fondo hai lavorato in casa tua...sempre che tu abbia lavorato...’’ ‘’insomma accudire un disabile o un anziano malato, cosa ci vuole...’’.

Le classiche risposte di chi non capisce nulla, che chiama il ‘’welfare familiare’’, ‘’amore e devozione’’, e che considera dovere oltre che indole naturale di una donna, perché quasi sempre della popolazione femminile si parla, quando è l’argomento cure familiari ad essere analizzato, accudire chi è più debole ed indifeso, e quando si tratta di dovere, questo non rende merito, non è un motivo di rispetto e di stima, ma solo un ‘’hai fatto quello che dovevi...che cosa pretendi...’’ così che un’ora lontano dal congiunto affetto da sventura, divenga per la caregiver fonte di biasimo e condanna sociale, e non una pausa necessaria, in quanto anche lei è un essere umano, non solo un’altra strumentazione medica nata solo per far sopravvivere qualcun altro. Amore , dono di sé, ma anche aiuto, per entrambi... perché aiutare il caregiver, significa anche sostenere il parente malato, al familiare indissolubilmente legato, qualunque sia il suo grado di parentela. Se nell’immaginario collettivo, la persona bisognosa di cure ed attenzioni, è un anziano , nella realtà molto spesso, questa persona non è affatto avanti con gli anni, anzi è spesso un fiore che ancora non ha iniziato a sbocciare. Come tra i caregiver. Tra di essi, infatti, la categoria, ancor più svantaggiata, è quella dei cosiddetti ‘’giovani caregivers’’. Si tratta spesso di bambini o adolescenti, non ancora maggiorenni, che si dedicano alla cura ed all’assistenza di un familiare, ricoprendo un ruolo e con delle responsabilità normalmente associate ad una persona adulta. Sono essi, figli, fratelli o nipoti oppure giovanissimi genitori...

Quando infatti l’età è tra i 18 ed i 25 anni siamo di fronte ai cosiddetti, ‘’giovani adulti caregivers’’.

Genitori... Non c’è infatti solo, la nuora cinquantenne che si occupa dell’anziano suocero, o la figlia ormai prossima alla pensione che deve accudire i genitori quasi centenari, ma sempre più spesso, la giovanissima mamma, neanche trentenne, che alla gioia di aver avuto un figlio, dovrà sempre associare il dolore per la disabilità cronica dalla quale è affetto, e disperarsi di giorno e di notte per tutta la vita, per il futuro di quella creatura che ha messo al mondo, e che presto o tardi, dovrà lasciare e non sa in quali mani, poiché lui non sarà in grado di cavarsela da solo e lei non sarà li a proteggerlo. Un altro problema generato dalla mancanza di riconoscimento del ruolo dei caregivers, non solo dalla legge, ma dalla comunità, che veda questo come un ruolo fondamentale, un merito ed motivo di rispetto e stima di chi a tale compito si dedica, non un obbligo o un dovere, legato ad ‘’un istinto biologico’’ o a ‘’convenzioni sociali’’, deprezzando un’intera categoria di persone che dovrebbero solo essere valorizzate ed apprezzate, per il loro operato , riducendo tutto ad un ricatto sociale e ad un vile mercanteggio, che svilisce non solo l’operato, ma soprattutto l’esistenza di tanti esseri umani, disprezzando un dono d’amore, che non è labile come un soffio di vento, ma dura molti anni, forse tutta la vita ed alle volte anche oltre.

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